IPERTENSIONE ARTERIOSA VERSUS PRESSIONE ALTA

Nella mia esperienza di cardiologo, oramai più che trentennale, essendomi sempre interessato all’ipertensione ed ai problemi correlati mi sono reso conto che coesistono due grandi entità in medicina che molto frequentemente vengono confuse e considerate clinicamente la stessa realtà pur essendo profondamente ed intrinsecamente diverse.

La valutazione scorretta in ambedue i casi porta a grossi errori di trattamento terapeutico con gravi danni per il malcapitato paziente che viene convinto di essere malato quando non lo è per niente.

Partendo dal presupposto che un corretto iter terapeutico deve prevedere una visita, una diagnosi e quindi una terapia che deve essere la conclusione dell’atto medico ho avuto modo di constatare che spesso viene prescritta una terapia senza avere formulato correttamente una diagnosi o avere solo postulato l’esistenza di uno stato di ipertensione arteriosa solo sulla base della misurazione, spesso solitaria.

Misteriosamente si tende a considerare una rilevazione tensiva alterata un pericolo immediato da correggere con la massima urgenza, cosa che è evidente non essere assolutamente né vera né necessaria.

E’ ben noto infatti che il “primum movens” dell’ipertensione è l’alterazione intrinseca della parete vasale che provoca modificazioni emodinamiche risolvibili solo con un aumento della spinta da parte del cuore e quindi della pressione arteriosa.

E’ palese e anche notevolmente intuitivo che le modificazioni di parete impiegano molto tempo, spesso anni, per estrinsecarsi; già il fatto di seguire correttamente e misurare la pressione a intervalli adeguati, qualche mese, porta a dire che un riscontro improvviso di valori tensivi elevati sono da considerare non una malattia organica ma uno stato alterato verosimilmente momentaneo del soggetto. L’incremento falso ed occasionale della pressione arteriosa segue meccanismi del tutto inconsci, molto simili alla concezione del “riflesso condizionato” enunciato da Pavlov all’inizio del secolo scorso e solo occasionalmente sono riconoscibili e riconosciuti dagli stessi pazienti come momenti di stress emotivo.

Pare ovvio ma non universalmente compreso che la terapia antipertensiva debba essere necessariamente somministrata nei casi correttamente diagnosticati come ipertensione arteriosa ed ovviamente non somministrata nei casi in cui l’aumento della pressione arteriosa sia momentaneo e comunque non organico.

Spesso mi è capitato di assistere ad un valzer di prescrizioni con modifiche di terapia settimanali o plurimensili assolutamente scorrette e non consideranti il fatto che i farmaci antipertensivi correggono l’ipertensione arteriosa e non modificano gli incrementi tensivi di qualsivoglia natura. Peraltro non considerando il fatto che, soprattutto nella categoria degli antipertensivi, i farmaci hanno spesso una latenza di efficacia d’azione che va dai quindici giorni al mese e non saranno mai efficaci in una sola settimana.

Quindi come si diagnostica l’ipertensione arteriosa ? Non certo da una mera rilevazione dei valori tensivi rilevati ma da una attenta valutazione clinica comprendente una visita cardiologica con un elettrocardiogramma dove la valutazione dell’asse elettrico è dirimente.

Un elettrocardiogramma che non abbia una deviazione assiale sinistra se non segni di sovraccarico del ventricolo sinistro non è sicuramente un tracciato di un iperteso.

Importantissimo un ecocardiogramma che valuti spessori e volumetria del ventricolo sinistro, segni di ingrandimento dell’atrio sinistro che, in assenza di patologie valvolari, subisce il maggior carico di un circolo iperteso.

Un fundus oculi normale nega la presenza di uno stato ipertensivo; al contrario se il fundus è alterato le cause potrebbero essere molteplici oltre all’ipertensione arteriose.

Il “gold standard” per la valutazione di una sospetta ipertensione è comunque, oltre a tutto quanto esposto poco sopra, il Monitoraggio Dinamico della Pressione arteriosa. (MAP)